Ex Ilva, cosa succede se non verranno rispettati i termini contrattuali?

Quali scenari attende Acciaierie d’Italia, ex Ilva, uno dei siti siderurgici più importanti del Paese? Una situazione ingarbugliata, che apre a contesti critici e complessi. Vediamoli nel dettaglio, con un salto indietro nel tempo per capire meglio dove siamo arrivati.

 

Dicembre 2020. Ultimi mesi del Governo Conte bis. Arcelo Mittal e Invitalia, agenzia nazionale per lo sviluppo d’impresa, sottoscrivono il contratto. Contratto che subordinava l’acquisto, da parte di Acciaierie di Italia, degli stabilimenti Ilva. Allo stesso tempo, Invitalia avrebbe dovuto salire al 60% delle quote, circa 680 milioni, portando lo Stato a divenire azionista di maggioranza. Questo 60%, però, è legato a delle condizioni. Condizioni che devono realizzarsi entro il 31 maggio 2022. Nuovo piano ambientale e dissequestro dei siti di Taranto.

 

Cosa succede se il patto non viene rispettato? Secondo il Secolo XIX, Acciaierie di Italia dovrebbe restituire tutti gli asset a Ilva. Compresi i dipendenti. Inoltre, i vecchi proprietari dovranno corrispondere ai soci un indennizzo. Ovvero la restituzione degli investimenti fatti in questo periodo. Un labirinto intricato, che rischia di vedere lo Stato costretto a gestire direttamente Genova, Taranto e Novi. Come fare? Sempre secondo il quotidiano genovese, rinegoziare l’accordo appare la via migliore. Una trattativa, ad oggi, nemmeno iniziata.

 

L’ambito giudiziario

Inoltre, come la vicenda non fosse abbastanza critica, aggiungiamoci il fatto che Mittal rischia, dal prossimo 1 giugno, di dover indennizzare i soci se la attività dovesse fermarsi. Il tutto, dopo aver investito in Puglia 1,8 miliardi di Euro. Rimane in sospeso anche la parte giuridica. Per il dissequestro occorre presentare istanza ai giudici. Step, al momento, non formalizzato. Il sequestro preventivo, infatti, non permette la compravendita dell’area. Inoltre, dobbiamo aggiungerci anche la confisca, nell’ambito della sentenza “Ambiente svenduto”. Questo passo resta in stand by, in attesa che si pronunci la Cassazione.

 

E Novi?

Se lo chiedono in molti, quale sia il futuro della fabbrica sita in strada Boscomarengo. Ad oggi, sappiamo che 150 dipendenti di Novi andranno in cassa integrazione per un anno, a partire dal 28 marzo. Scontato, secondo le voci degli ultimi giorni, che la scadenza arriverà al 2025 e non al 2023. Nel documento si spiega che il piano di ristrutturazione aziendale prevede inizialmente una produzione di 15 mila tonnellate d’acciaio al giorno rispetto alle circa 20 mila tonnellate al giorno producibili a regime. In totale, l’azienda prevede la “cassa” per 3mila lavoratori. Nel dettaglio: Taranto (2.500 lavoratori), poi Genova (250), Marghera (30), Racconigi (15), Legnaro (10) e Paderno Dugnano (5).

 

Una situazione complessa, giocata su vari fronti, con il rischio che, tra sentenze non ancora pervenute e contratti disattesi, a pagare siano ancora una volta i lavoratori e il futuro della siderurgia italiana. Da anni, in attesa di vedere risolta la querelle Ilva una volta per tutte.